Sting & Shaggy: The 44/876 Tour

Jul
30
2018
Naples, IT
Etes Arena Flegrea
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Napoli, Sting oscura Shaggy nell'arena del reggae...

Deve essere un bello sfizio mettere in piedi un tour, dopo un disco, così reggae, così caraibico, e tornarsene a casa con la consapevolezza, e il riconoscimento critico, che tu, bianco, inglese di Wallensend, classe 1951, reggatti meglio di un reggaeman originale nato nel 1968. Chissà che dietro le dichiarazioni di amicizia e di sintonia multikulturale che Sting ha usato per motivare l'incontro con Shaggy non ci sia anche la voglia dell'ex Police di toglierselo questo sfizio. Quando, con la sua ex band, iniziò a profetizzare l'avvento di un "Reggatta de blanc", il successo fu planetario, ma gli esperti, a ragione, preferivano, sul fronte "bianco", il punky-reggae party dei Clash e di altri radicali liberi, decisamente più attenti a temi e bassi del canto libero in levare. Ora dividendo il pane e le rose con mister Boombastic, lo oscura, più o meno volontariamente, per repertorio, applausi, attitudine.

L'album "44/876" - titolo che sintetizza i prefissi telefonici delle nazioni dei due protagonisti - non segnalava il problema più di tanto, visto il materiale inedito, ma la questione diventa clamorosamente evidente nel tour dei due applaudito da seimila persone ieri sera a Napoli: Sting & Shaggy sono affiatati sul palco dell'Arena Flegrea che chiude alla grande una buona stagione, finalmente premiata anche dal pubblico, ma... il primo ha a disposizione un repertorio che cancella letteralmente quello del secondo, che pur ha dalla sua una spacconaggine tamarra perfetta per il dancefloor giamaicano.

Il falsetto dell'Enghlishman in Kingston si sposa con il tono profondo e baritonale del suo socio, con cui divide anche gli hit personali, per vedere (poco) di nascosto l'effetto che fa: Sting batte Shaggy tre a zero. Persino la formazione che li accompagna è democraticamente divisa a metà, ma non basta: Dominic Miller (chitarra), Josh Freese (batteria) e Rufus Miller (chitarra), più il tastierista Kevon Webster e i coristi Monique Musique e Gene Noble.

La bandiera giallo, verde e nera sventola sul palco e tra i gradini, "Englishman in New York" è l'incipit che diventa subito "Jamaican in New York", visto che nella Grande Mela l'uomo di "Oh Carolina" ci è cresciuto, sino a diventare cittadino americano.

Nulla di forzato, insomma, tutto spontaneo, persino inevitabile, ma se "Morning is coming" suggerisce un giro di basso che porta direttamente a "Everything she does is magic" per Sting è come tirare un rigore a porta vuota. E quando arriva a "Message in a bottle", reggatta ben più dell'originale, poi il gol vale doppio, se non triplo.

I seimila in platea ballano e sudano, fa caldo, decisamente caldo. "Fields of gold", "If you love somebody set them free", "Don't make me wait", "Angel", "Hey sexy lady", "So lonely", l'apoteosi di "Get up stand up" con Shaggy che arringa e la leggenda del santo fumatore Bob Marley che aleggia nella notte di Napoli.

I due si divertono, si travestono persino, Shaggy da giudice e Sting da imputato, eppure è difficile non accorgersi del divario delle forze messe in campo, dello sbilanciamento artistico in campo.

Sul finale non ce n'è per nessuno, e qui il repertorio aiuta finalmente anche Orville Richard Burrel (così all'anagrafe) che può rispondere alle "Walking on the moon", "Roxanne" e "So lonely" di mister Gordon Sumner con il suo tormentone "Boombastic", prima che tutto si concluda con "Every breath you take" con accenno a "O sole mio", e quindi rallentando il ritmo con "Fragile".

Domani l'ultima tappa italiana del tour, al Teatro Antico di Taormina.

(c) Il Mattino by Federico Vacalebre

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